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Pio Cencigh racconta...

23 maggio 1915 - 23 maggio 2015

Centenario della dichiarazione di guerra dell'Italia all'Impero

austro-ungarico

Testimonianze di nicchia riguardanti Platischis

 

Queste testimonianze sulla Prima Guerra Mondiale, l'ho raccolte direttamente dalla viva voce di alcuni protagonisti combattenti di prima linea e persone di Platischis. Esse sono: mia madre Francesca Cormons, classe 1897; mia zia Maria Cormons, classe 1905; Giovanni Cencigh (Juën), classe 1898; mio padre Angelo Cencigh, classe 1897. Ci sarebbero molti altri fatti e azioni militari che meriterebbero essere ricordati ma, mi limiterò solo a queste testimonianze.

A Platischis, la dichiarazione di guerra dell'Impero austro-ungarico alla Serbia nel 1914, dette molte preoccupazioni soprattutto per la simpatia che si aveva verso l'Austria e la Mittel Europa, zona privilegiata per i nostri emigranti. L'Italia alleata a questo blocco non dava fiducia. Infatti, quando essa, tradendo gli accordi, dichiarò guerra al suo alleato, il paese fu colto di sorpresa, anche perché le notizie, allora, giungevano in ritardo.

La sorpresa. Racconta mia madre: "La sera del 23 maggio 1915, la gente stava andando a dormire quando, dalla strada ghiaiosa giunse improvviso uno strano rumore di scarpe chiodate. Le finestre delle case si aprirono per capire cosa stesse succedendo. Nella poca luce s'intravedevano le prime truppe italiane mandate in fretta e furia al confine austriaco per attraversarlo e prendere posizione. Gli ufficiali, mentre sfilavano, facevano cenno con un dito sulla bocca a ritirarsi. Gli anziani capirono subito la tragedia che stava per abbattersi".

Nel Comune di Platischis molti uomini furono chiamati alle armi. Mio padre fece l'istruzione a Vicenza. Nel 1916 la sua compagnia è schierata nel Trentino.

Il 15 maggio ebbe inizio la battaglia degli Altipiani. Le forze austro-ungariche lanciarono una massiccia offensiva contro le posizioni italiane, conquistando molto terreno e migliaia di prigionieri. Per fortuna, dopo l'attacco-sorpresa, i comandi italiani si riorganizzarono mandando truppe fresche e di riserva a contenere l'urto.

Molti platiscani parteciparono alle battaglie con fortune diverse. Mio padre faceva parte di una compagnia di artiglieria alpina dotata di cannoncini da 65 mm, chiamate batterie volanti perché spesso in movimento a sostegno delle prime linee. Il mezzo di trasporto degli obici erano naturalmente i muli.

Racconta Giovanni Cencigh (Juën), alpino: "Era tutto tranquillo!, improvvisamente succede il finimondo: spari, urla, smarrimento. In pochi attimi eravamo circondati dagli austriaci e fatti prigionieri senza poter opporre resistenza. Fui trasferito in Ungheria, dove terminai la guerra lavorando in una fattoria". Juën, 26 anni dopo, Seconda Guerra Mondiale, è protagonista di una seconda prigionia. Siamo nel 1944, a Platischis ci sono i partigiani sloveni, è in atto un rastrellamento tedesco. Tutti gli uomini validi compresi i ragazzi fuggirono dal paese nascondendosi come meglio potevano. Giovanni venne trovato subito e arrestato: prigioniero per la seconda volta. La latteria del paese è data alle fiamme, un ufficiale tedesco è colpito a morte! Durante la ritirata da Platischis, è battaglia sopra Subit tra partigiani sloveni e garibaldini contro i tedeschi. Juën, eludendo la sorveglianza del soldato tedesco cui era dato in custodia, riesce a mettersi in salvo e ritorna in paese.

Racconta mio padre Angelo Cencigh (Hödin), artigliere: "Davanti a noi era posizionato un battaglione di fanteria. A un certo punto si videro soldati austriaci avanzare verso le truppe italiane sventolando dei fazzoletti: non avevano armi quasi volessero consegnarsi prigionieri. Subito dopo il contatto con le truppe italiane dai loro tascapane tirarono fuori granate a mano lanciandole contro gli italiani con un impeto travolgente. Il battaglione venne sopraffatto e non ci fu modo di fermarli. La mia batteria a un certo momento sparava ad alzo zero. Quando vennero i rinforzi e si riuscì ad arginare l'offensiva, eravamo a secco di munizioni. A fianco alla mia compagnia, leggermente avanzata, era dislocata la compagnia di alpini di Marinč: durante l'offensiva venne ferito. Lo sentivo chiamare aiuto ma era impossibile prestargli soccorso". Comunque si salvò, tornò a Platischis e sposò una cökerinka. In seguito emigrò in Canada.

Terminata l'offensiva in Trentino, la compagnia di mio padre venne subito spostata sull'Isonzo. Fu dislocata sul Monte Sabotino, quindi, sul Monte San Michele e, dopo la sesta battaglia dell'Isonzo, prese posizione sul Monte Santo.

1917, 24 ottobre. Inizia la battaglia di Caporetto. Racconta mio padre: "La zona che occupavamo era brulla, senza più vegetazione per il continuo martellamento dell'artiglieria austriaca. La giornata sembrava uguale alle altre, nulla lasciava presagire ciò che sarebbe successo pochi istanti dopo. Improvvisamente si scatenò l'inferno. Tutte le bocche da fuoco austriache sputavano proiettili di ogni tipo che sibilavano paurosamente prima di schiantarsi. I nostri 65 mm in risposta quasi non li sentivamo. Uno di questi scoppiò vicino alla nostra postazione. L'inserviente addetto al caricamento è rimasto ferito ad un piede e urlava come un forsennato: una scheggia gli ha troncato l'alluce. Senza pensarci, presi immediatamente il suo posto caricando con lena il cannoncino. Ancora con la granata in mano fui fermato, non capivo il motivo. Alcuni infermieri si presero cura di me. Guardando la parte insanguinata, mi resi finalmente conto di avere una scheggia conficcata nel braccio sinistro. Prima di essere evacuato in fretta e furia verso Gorizia, il capitano, alla presenza degli ufficiali, promise che non appena la situazione si sarebbe normalizzata, mi avrebbe proposto per la medaglia d'argento al valore militare. Motivo: "benché ferito gravemente continuò imperterrito a sparare contro il nemico". Partii immediatamente dalla stazione, forse con l'ultimo treno ancora utilizzabile prima dello sfondamento del fronte. Venni operato sul treno. Mi dettero della grappa da bere, un fazzoletto in bocca e via con l'intervento. L'estrazione della scheggia era difficile, ha trapassato l'osso. Volevano tagliarmi il braccio perché difficilmente salvabile. Mi opposi. Finalmente, liberato l'arto, ero felice pensando che tutto si fosse risolto per il meglio ma, subentrò l'infezione. I sanitari erano decisi ancora a tagliare per paura che questa avanzasse. Resistetti. Dopo settimane e continui raschiamenti della ferita, l'infezione fu bloccata. Il braccio era salvo, anche se, per tutta la vita, è rimasto rigido a 45°. Da Napoli, a bordo di un piroscafo, raggiunsi Palermo. In questa città siciliana attesi con trepidazione la fine della guerra: ero completamente senza notizie dei miei cari". Dopo il 4 novembre del 1918 si assiste al ritorno dei reduci. Mancavano naturalmente i caduti e i dispersi. Tra questi figurava mio padre. Un giorno, molte settimane dopo, a Campo di Bonis, qualcuno vide arrivare a piedi da Taipana una persona. Con incredulità riconobbe in essa mio padre ormai dato per disperso. Corse verso Platischis a dare la notizia. "Angelo Hödin è vivo!, l'ho visto a Campo di Bonis". La gente si radunò, curiosa, ai piedi del sentiero che scende da Sant'Antonio, per abbracciare l'ultimo soldato mancante all'appello. Allora, giungere da Palermo, era veramente difficile per la disorganizzazione e lentezza dei mezzi di trasporto e la camminata finale dalla Stazione di Udine a Platischis.

24 ottobre 1917. Racconta mia madre Francesca Cormons: "Quasi improvvisamente sentimmo un lontano brontolio, sembrava l'avvicinarsi di un temporale. La gente cominciò a pensare cosa stesse succedendo. Poco tempo dopo, dal fondo del paese, cominciarono ad arrivare, disordinatamente, soldati italiani diretti verso la piana friulana e con essi anche alcuni barellieri con feriti. Non c'era ordine né ufficiali a comando: tutti avevano fretta di allontanarsi il più presto possibile. Ormai era chiaro il disastro. In poche ore ogni speranza di resistenza era svanita. Mentre gli italiani si ritirarono disordinatamente abbandonando a se stessi i feriti più gravi, ecco apparire i primi soldati austro-ungarici che travolsero con facilità la poca retroguardia italiana: erano formazioni d'assalto nemiche. Costoro avanzavano inesorabilmente facendo da apripista alle truppe che seguivano. Alle loro spalle lasciavano solo devastazione e morte". Dietro Sant'Antonio, fino agli anni Sessanta, erano ancora visibili le mura della cascina Sturma (Cökerinu kasön), dove "le truppe italiane abbandonarono quattro feriti che vennero massacrati a pugnalate da questi forsennati. In seguito fu data loro degna sepoltura nel cimitero di Platischis. Per quaranta giorni e quaranta notti le truppe austro-ungariche continuavano a passare per Platischis. Erano imbruttiti e affamati. Nei campi e sui prati non rimase un filo d'erba commestibile. La paura tra la popolazione era tanta. Hanno gettato dal campanile le tre campane portandole via. Un pezzo di bronzo di una campana venne sottratto e nascosto. Alla fine del conflitto questo pezzo di metallo venne utilizzato per fondere una nuova campana che ora si trova sul tetto della chiesa. La chiesa stessa fu devastata dalla soldataglia. Un mulo venne vestito con i paramenti sacri tra le risa degli invasori". Racconta mia zia Maria: "Le signorine e persino le bambine più grandicelle venivano tenute nascoste sui granai per paura di violenze. Ero nascosta sul granaio quando, dalla finestrella vidi soldati austriaci trascinare nel Briëh la nostra Briëza, unica mucca, e macellarla. Ho pianto così tanto…".

Le radici. Ancora mia madre: "Un giorno, mentre una compagnia austriaca stava entrando in paese, un giovane soldato sentì pronunciare il nome Plestišča. Subito rammentò i racconti di sua madre (Bačauka) che gli spiegava di essere nata in quel villaggio italiano e che i suoi parenti erano della famiglia Sedola (Bačau). Il giovane chiese al comandante il permesso di informarsi e andare a trovare i parenti. I platiscani gli dettero subito indicazioni precise, anzi, lo portarono direttamente dai parenti che abitavano proprio all'inizio del paese. Immaginarsi la sorpresa e la commozione. Rimase pochissimo con loro perché la compagnia era in movimento. Lo rifocillarono dandogli quello che potevano per alleviare la fame, lo accompagnarono per qualche chilometro lasciandolo libero al suo destino. Si salvò e tornò in Austria alla sua fattoria tenendo sempre contatti con la parentela. Da giovane, sua madre lasciò Platischis per la Carinzia andando sposa a un giovanotto austriaco. Terminato il flusso delle truppe austro-ungariche, ci fu un periodo di relativa quiete fino al termine della Grande Guerra. Poco dopo cominciò il triste periodo della Spagnola. Questa terribile inarrestabile epidemia falciò in paese più vite della stessa guerra".

 

Pio Cencigh (Hödin)

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Una nuova vita

Nel 1800 un bambino, bello biondo con gli occhi chiari, stava giocando con altri bambini sulla strada che attraversa il paese, che all’epoca corrispondeva ad un sentiero leggermente largo.

Era mattina e questo bimbo di circa 6 anni scomparve. Nessuno se ne accorse finché a ora di pranzo la madre chiamandolo e non ottenendo risposta andò a cercare dove si era cacciato. Non lo trovò e la preoccupazione la assalì…

Chiese in giro se qualcuno lo avesse visto ma nessuno sapeva dirle un sì. Finchè a forza di chiedere alcuni bambini risposero che un gruppo di tante persone era passata di lì a piedi mentre giocavano e lui era andato con loro.

Qualche adulto richiamato dall’agitazione  della madre arrivò alla conclusione che fossero stati gli zingari. E qualcun altro confermò di averli visti passare.

Un gruppo di persone si mobilitò e corse il più possibile lungo il sentiero cercando di raggiungerli. Ma dopo molti km. senza risultato si arresero e tornarono indietro a Platischis.

I genitori furono travolti dal dolore per la perdita del loro unico figlio e gli anni passarono...

 Passarono forse 20 anni e un gruppo di zingari passò di nuovo per Platischis arrivando nuovamente da est. Un giovane uomo con in braccio un bambino e al suo fianco la moglie, ebbe la sensazione di conoscere questo paese. Gli riaffiorarono alla mente dei ricordi e riconobbe alcuni posti. Non capendo come mai avesse questa sensazione di ricordo di questo posto egli chiese ad un vecchio informazioni. Il vecchio, seduto fuori casa, lo riconobbe dai ricordi e dai lineamenti del giovane zingaro che gli stava parlando e concluse che assomigliavano a quelli dei suoi veri genitori ormai scomparsi. A questo punto gli raccontò la storia della sua scomparsa. 

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GLI SKRET

 

1°:

Negli anni  1920 circa in una stalla appartenuta in passato alla famiglia Marinč, che poi migrata in Canada si estinse, e venne acquistata da Genio Skòmpin(oggi questa stalla si troverebbe nello spazio vuoto esistente tra Sedola Laura e le stalla dei Dreion francesi), c’erano due cavalli da tiro.

Una mattina presto come tante, Marinč si recò nella stalla e ne uscì correndo e vedendo Maria e Francesca Zehic che si erano appena alzate disse loro di correre con lui in stalla a vedere cosa era accaduto. Tutti e tre  in stalla videro cosa era accaduto e le due giovani confermarono ciò che il Marinč vide poco prima confermando così che era vero, e che lo stesso non era né impazzito, ne ubriaco. Le criniere dei due cavalli furono trasformate in un infinito numero di piccole treccine. Erano talmente ben fatte e sottili che nessuno di loro riusciva a scioglierle. Ed erano talmente tante che in una notte sola nessun umano avrebbe potuto farle. E questo era certo perché l’ultima volta che Marinč aveva visto le bestie era la sera prima di andare a dormire e non avevano le trecce.

Pensarono subito che fosse uno degli scherzi regalato dagli Skret. Durante il giorno molti del paese vennero a vedere le incredibili treccine dei cavalli fino a sera .

Andarono tutti a dormire e nuovamente al mattino, questa volta in tre, andarono in stalla a vedere se ci fosse stata qualche altra novità. E la trovarono!

Le treccine non esistevano più… i cavalli ebbero di nuovo le loro belle criniere pettinate e leggermente ondulate.

                                                                                                                      (d.s.)

 

Molto tempo fa a Platischis, durante una notte scomparve dal letto un bambino di tre anni circa. La madre se ne accorse verso le 4 di notte perché si alzò a controllare se il figlio stesse dormendo tranquillo.

Non vedendolo nel letto si mise ad urlare che non c’era più il suo bambino. Molte persone svegliate dalle grida si misero a cercarlo con la famiglia in lungo e in largo, ovunque ma senza fortuna. Ormai esausti dal correre in giro, lo trovarono a mezza mattina coricato che dormiva beato da solo accanto ad un grosso sasso, in uno dei prati attorno al paese.

Passato lo spavento gli chiesero perché se ne fosse andato dal letto e perché si trovasse in quel posto così lontano da casa. Il piccolo raccontò che un bambino alto come lui con in testa un bellissimo berretto a punta di colore rosso lo svegliò, lo prese per mano e gli disse di andare con lui.

Dopo che camminarono un bel po’ entrambi stanchi si sedettero e si addormentarono.

 

Tutta la famiglia nuovamente unita ritornò a casa e non accadde loro più nulla di così strano.

                                                                                                                                (d.s.)